Gavosto, fondazione Agnelli: «Migliorare la didattica per crescere, ma non diamo troppo peso ai ranking»

Andrea Gavosti
Andrea Gavosti
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Martedì 14 Maggio 2024, 05:10 - Ultimo aggiornamento: 07:41

Smascherandone alcuni meccanismi perversi, Andrea Gavosto, economista e presidente della Fondazione Agnelli, invita a riflettere sui risultati non lusinghieri, ma anche a non dare troppo peso alle classifiche. «Non sono le Università italiane a indietreggiare - commenta - ma quelle dell’estremo Oriente ad avanzare». Certo, il peccato originale dell’Italia rimane, ed è quello di investire troppo poco in ricerca e sviluppo: appena l’1% del Pil (anche se con il Pnrr le cose dovrebbero migliorare).

Gavosti, come mai quasi tutti gli Atenei italiani perdono posizioni nel Center World university ranking?

«Tendo a interpretare la classifica non come una retrocessione degli atenei italiani, ma come una crescita di quelli orientali, Cina in testa, che quindi ci scavalcano».

Cosa ci dice questa classifica sullo stato di salute dell’Università italiana?

«È uno dei ranking più attendibili, ma rilevo qualche stranezza: ad esempio il fatto che tutti i Politecnici italiani e la Normale di Pisa sono in posizioni basse, anche se sono tra le migliori università italiane e che l’Università di Perugia stia prima del Politecnico di Milano».

E da cosa dipende?

«I ranking misurano diversi aspetti tra cui la qualità della ricerca o il tasso di occupazione dei laureati, ma alcuni criteri lasciano un po’ perplessi: ad esempio, la qualità dell’insegnamento è giudicata misurando i voti degli studenti e allora le posizioni in classifica dipenderanno moltissimo da quanto ciascun ateneo è severo.

Se l’università regala i voti si troverà in posizioni alte. L’impressione è anche che venga premiata la dimensione dell’Ateneo, per questo Napoli e Milano, che hanno tantissimi iscritti, sono in posizioni alte. E allora vanno bene le classifiche, ma non diamoci troppo peso».

Un dato di fatto è, però, che gli Atenei pugliesi perdono tertreno e tra le prime dieci italiane solo una, la Federico II di Napoli, è del Sud.

«È un fenomeno che già conosciamo: le università del Sud, Puglia compresa, soffrono l’enorme concorrenza da parte delle università telematiche. Un 10% degli iscritti preferisce immatricolarsi online perché così non si deve spostare e non da ultimo perché queste università sono meno severe. È difficile, per gli atenei del Sud, rimanere stabilmente alti in classifica e in più c’è il rischio del circolo vizioso».

Cosa intende?

«Le università del sud perdono immatricolazioni e scendono nei ranking, questo fa venire meno quella parte dei fondi statali attribuiti su base della qualità della ricerca. A Lecce, ad esempio, la facoltà di Ingegneria è stata tra le migliori d’Italia, così come lo è stato il Politecnico di Bari, ma ora non è più così: si alternano fasi eccellenti a fasi meno brillanti».

Cosa si può fare per invertire la rotta?

«Intanto siamo uno dei Paesi che investe meno in ricerca e sviluppo: solo l’1% del Pil, anche se con il Pnrr dovrebbe andare un po’ meglio. Poi bisognerebbe internazionalizzare gli studenti con percorsi in inglese e smetterla con il provincialismo che privilegia i docenti cresciuti all’interno dell’Ateneo e reclutare docenti di fama internazionale, perché quelli fanno fare il salto: le nuove norme sul rientro dei cervelli dovrebbero aiutare. Infine, migliorare la didattica: con classi di 400 studenti al primo anno è impossibile pensare in maniera innovativa e coinvolgerli tutti».

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