C’è la sua Puglia, tra ieri e oggi, che rimbalza tra storie diverse di genuinità perduta. Poi cronache mediterranee di un secolo morente, tra naturale accoglienza e politiche di respingimento dissennate: si parte da echi dai colori albanesi degli anni Novanta che aprirono un’epoca di immigrazioni che, a latitudini diverse, ancora continua. E poi c’è l’amore che, alla fine, fa sempre girare tutto. Detti in breve, per grandi linee, tra questi strati si muove la narrazione appassionata di Marco Ferrante, giornalista e scrittore, contenuta nel suo ultimo romanzo “Ritorno in Puglia” (Bompiani; 368 pagine; 20 euro). Lo scrittore nativo di Martina Franca, classe ’64, è in questi giorni tornato nella sua regione per un tour di presentazioni del libro: le prossime tappe sono il 19 aprile a Nardò alle 19 presso la Biblioteca Vergari e il 23 a Lecce da Liberrima alle 18.
Il libro
“Ritorno in Puglia” racconta di un piccolo paesino immaginario sul versante adriatico tra Murgia e Salento, di un imprenditore degli anni Novanta, delle sue aziende con lavoratori arrivati dall’Albania e della sua famiglia che incrocerà storie dell’altra parte dell’Adriatico.
«L’affondamento della Kater i Rades è stata una tragedia che ci ha investiti all’improvviso, non era mai successa prima una cosa del genere, che una barca di civili fosse colpita da una nave da guerra italiana. Nel libro sono partito con l’idea di raccontare la dinamica dei rapporti tra “noi e loro”, cioè gli occidentali fortunati e gli “altri”».
«Sì, è travolto dall’indifferenza generale e si chiede come mai nessuno vuole sapere di più su questo naufragio causato da una nostra nave. Peraltro queste persone, donne e bambini per lo più, erano morte in modo orribile perché rimaste dentro la nave colata a picco. Solo un bambino si era salvato uscendo da un oblò».
«È questo l’innesco del romanzo. Poi diventa anche una storia di ipocrisie, delle difficoltà dei rapporti umani, della complessa convivenza svelata dalla storia d’amore tra due protagonisti giovani e belli, lui pugliese e lei albanese».
«Non è la mia una Puglia turistica, è quella profonda e vera di allora, non contaminata dal racconto un po’ artificioso fatto successivamente, quello dei prati inglesi nelle masserie per intenderci. La Puglia di oggi non è quella in cui sono cresciuto io, il turismo concorre sempre al cambiamento profondo dei luoghi. Quando i centri storici diventano enormi aree di ristorazione è chiaro che ci si trova di fronte ad un cambiamento radicale. Il problema è però che non si attrae neanche poi tutta questa ricchezza, al di là dei lavori stagionali, resta poco».
«Certo, però nel mondo in cui siamo cresciuti noi era un fatto marginale, peraltro uno strumento di controllo sociale sulle donne. Che sia diventato un emblema identitario di modernità è un po’ un paradosso. Esisteva questo fenomeno nella civiltà agraria, ma non c’era nessuna identificazione popolare nel tarantismo, una tragedia antropologica è stata trasformata in un simbolo di modernità. Nel mio romanzo si parla anche di cambiamenti».
Puglia e Albania: che storia oggi raccontano?
«Il processo di integrazione nel medio termine qui ha funzionato bene, al netto di qualche episodio di cronaca. La comunità albanese si è ben integrata e direi che sia stato merito di entrambi, noi e loro. È stato un tipico processo di integrazione mediterranea connaturato alla nostra storia, così come nel caso di comunità ebraiche assimilate qui e tante altre. La ricchezza culturale degli altri è stata sempre assorbita da noi, è un dato storico antropologico positivo».